Quante volte ti è capitato di fallire e sentirti amareggiato? Ti succede di sbagliare e poi darti dell’incompetente? Hai mai affrontato una sfida, accorgendoti poi che non eri in grado di reggerla, ricordando così a te stesso quanto sei incapace o prendendotela addirittura con la vita stessa?

I fallimenti che non accetti nella tua vita possono essere creati da una parte vulnerabile di te a cui non dai spazio e che si manifesta in modo distruttivo attraverso vie alternative, quali perdite o distruzione di cose, depressione, mancanza di lavoro, assenza di relazioni.

Una parte di sé non accettata vive nell’ombra e dall’ombra si manifesta, attraverso sintomi, situazioni e proiezioni distruttive, che hanno lo scopo di dare uno spazio a quella parte e renderla visibile alla persona.

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Qualunque situazione vissuta come negativa richiama una parte della persona messa in ombra. La persona la vive come negativa proprio perché ha negato quella parte di sé e per lei risulta difficile ascoltarla.

Nel caso dei fallimenti vissuti come negativi, per la persona è inconcepibile sbagliare, avere bisogno o non raggiungere certi obiettivi, così il fallimento si mostra nella sua vita come proiezione di una vulnerabilità non accettata che ha bisogno di attenzioni e di essere vissuta nel suo aspetto creativo.

 

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Quando un fallimento viene vissuto come misura del proprio valore, la persona ha messo in ombra la sua parte vulnerabile, dando spazio solo alla prestazione.

Prendiamo l’esempio di D., cresciuta in una famiglia in cui vigevano motti del tipo: “Non si chiede niente a nessuno”, “Chi fa da sé fa per tre”, “Questa famiglia non ha debiti con nessuno”, “Me la cavo da sola”, “Non ho bisogno di chiedere”, e così via. In questa famiglia veniva prima di tutto il lavoro e D. si trovava spesso da sola, quindi ha imparato ad arrangiarsi e a non chiedere aiuto. Per lei sbagliare era tremendo, perché significava dover rispondere dei suoi errori e inoltre togliere prezioso spazio libero ai genitori, già così impegnati nel lavoro.

Era brava a scuola, in modo da non dare pensieri e i capricci non erano contemplati, così come gli atteggiamenti infantili, tra cui debolezze, fantasie, coccole e bisogno di gioco, giocattoli, favole e divertimenti.

C’era spazio per giocare solo in dati momenti stabiliti e avere delle pretese non era concepito. Ogni cosa andava conquistata e guadagnata.”, sono le parole di D., mentre guarda in basso e ricorda la sua infanzia.

Osservo le sue mani e noto quanto sono dure, nodose, da ostinata lavoratrice… mentre le unghie portano uno smalto rosa ben curato, segno di un desiderio di femminilità e delicatezza ancora vivo.

D. è cresciuta mettendo in ombra la sua parte vulnerabile, femminile, bisognosa, fallibile. A D. non è stato insegnato l’errore, non è giunto l’amorevole gesto del perdono, non è stato dato lo spazio per fare delle prove e conoscere i suoi limiti. Per D. c’erano solo obiettivi da raggiungere.

D. lamenta il fatto di “farsi sempre un mazzo quadrato e non ottenere mai i risultati sperati”.

Lavora, accontenta marito e figli, è sempre gentile con i clienti e ce la mette tutta per fare bene il suo lavoro. Eppure i conti non tornano, non guadagna abbastanza e “ogni tre per due c’è un guaio che mi chiede di sborsare cifre assurde… il più delle volte devo usare i risparmi delle vacanze per riparare qualche danno… così addio vacanze…”

D. si mette a dieta, segue i consigli della nutrizionista, mangia con calma, pesa il cibo, eppure ha la pancia gonfia, il suo intestino è infiammato e si sente debole.

Tutto quello che fa, insomma, si rivela inutile, e tutti i suoi sforzi finiscono in niente. Forse è proprio questo il messaggio del suo io profondo: prendere confidenza con il niente.

 

D. è cresciuta con l’idea dell’obiettivo, della prestazione, del guadagno. Non è stata abituata a prendere con leggerezza la perdita, l’errore, la debolezza. Non si è mai concessa di essere niente, di fare niente, di ottenere niente, di dare niente, di dire niente. La sua vita è sempre stata piena di qualcosa e il nulla era uno spettro da cui stare lontani. Il vuoto, ovvero la sua parte femminile, è stata messa in ombra e si è quindi manifestata in modo distruttivo, per essere vista.

L’ombra resta dietro di noi, non scompare, e continua a vivere “di traverso”, creandoci dei problemi, in modo che possiamo vederla, riconoscerla e integrarla.

La storia di D. è simile a quella di molti altri cresciuti in una società del dopo guerra, della ripresa economica, della produzione e degli imperativi di obiettivo, guadagno, carriera, prestazione. Alcune persone esauste di questo sistema, hanno rinnegato i suoi valori, rifugiandosi nel pacifismo, nell’ascetismo e in altre forme di estremo femminile. Anche in questo caso, c’è una negazione di una parte di sé, che si manifesta in altro modo.

Un grande esempio è dato dal famoso Gandhi, conosciuto per la sua campagna pacifista (o non-violenta, ovvero che nega la violenza). Gandhi era così “pacifico” da martoriare il suo corpo con digiuni e scioperi della fame, imporre ferrea disciplina ai suoi discepoli ed attirarsi una mortale pallottola. Questo dimostra come possiamo dire e fare tante cose, ma è ciò che viviamo a dimostrare quello che abbiamo davvero dentro.

Ci sono altri esempi di persone considerate grandi maestri e poi morte di avvelenamento, infarto, tumore… tutte sintomatologie che parlano di energia vitale repressa e ombra proiettata.

Tornando all’esempio di D. che ci è utile per comprendere lo stato d’animo di afflizione che spesso si prova dopo un fallimento, possiamo vedere come la guarigione stia nel dare spazio alla propria parte sensibile, femminile, vulnerabile, bisognosa, cedendo a se stesse e alla vita, facendosi portare, pur mantenendo il timone, riconoscendo i propri limiti e avendo chiari i propri reali obiettivi, ovvero quelli che permettono di esaudire i desideri dell’anima.

Quello che fa stare bene è l’armonia delle parti, in questo caso di maschile e femminile, ascolto e azione, lavoro e riposo, che collaborano per il miglior beneficio.

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Quindi, non è necessario mollare tutto, rinunciare alle cose, polverizzare il portafogli o abbandonare una vita comoda ed appagante. Ciò di cui abbiamo bisogno è riconoscere noi stessi, le nostre fragilità, i nostri limiti ed arrenderci al fatto di avere bisogno degli altri, di essere diversi da come ci voleva il contesto in cui siamo cresciuti, ed avere desideri anche fantasiosi oppure semplici, di quotidiana vita.

Ci sono donne che amano davvero la casa, ma fuggono da essa perché ricorda loro lo stereotipo della casalinga frustrata, così si obbligano ad essere prestanti, sempre in viaggio e all’opera. Allo stesso modo, ci sono uomini che amano fare molte esperienze ma non se le concedono perché sono stati feriti da padri sempre presi a fare qualcos’altro che non fosse stare con la propria famiglia.

Ognuno di noi ha bisogno di liberarsi dal vissuto, dalle ferite e dalle paure, e ritrovare se stesso, pulito dagli spettri e dai paragoni.

Fallire, dal latino phal = cadere, ci è di aiuto per prendere contatto con l’errore, la notte, la caducità, la morte, la resa… la possibilità di restare a terra, di entrare nel buio e ascoltare che cosa ha da dirci.

Perché la verità sussurra da un angolo remoto del nostro io profondo.

Grazie.

 

Rossella Schianchi

Fonte : https://percorsidiconsapevolezza.wordpress.com/2017/06/30/uomini-che-hanno-paura-di-ferire/

Pagina FB : https://www.facebook.com/percorsidiconsapevolezza/

 

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