LO SGUARDO CHE CURA
Dentro ciascuno esistono due modi di vedere i disagi
Oggi vorrei parlare di come si guardano i disagi, in particolar modo l’ansia e quindi di come si sta con sé stessi. È molto diverso dire “soffro di ansia, non so cosa fare” oppure dire “ adesso sento l’ansia che arriva e la guardo come se fosse un panorama”. Questo perché dentro di noi esistono due sguardi: lo sguardo “del dettaglio”, quello che ci fa dire “io sono i miei pensieri, io ho questo carattere, io sono fatta così, questo è il mio passato, questa è la mia storia, questi sono i miei ricordi”. Questo è uno sguardo che fa ammalare. Poi c’è uno sguardo che infinisce: questo è lo sguardo “della salute”. Guardo l’ansia non come se fosse una cosa che mi tormenta, ma come il vento: non sta arrivando l’ansia, sta arrivando il vento. E io mi affido al vento. Se chiudo gli occhi e sento l’ansia arrivare mi affido al vento e improvvisamente divento come un seme che viene portato da una parte all’altra, sbattuto di qua e di là. Insomma comincio a perdermi…
Il “potere” dello sguardo panoramico
Questo è lo sguardo che conta: per capire come funziona occorre pensare al modo con il quale si guarda un panorama e ci si accorge che si possono fare due cose: o portare l’attenzione ad esempio sul tetto di una casa, quindi su un dettaglio, oppure lasciare che lo sguardo si perda e a quel punto non vediamo più una casa, ma tutte le case…. Bisogna guardare i disturbi come se fossero infiniti. E quindi bisogna che guardiamo i disturbi come se fossero parte del “regno” di una fiaba: “c’era una volta un attacco di tristezza che è venuto a trovare proprio me. Tristezza, tristezza, ti prego, dimmi cosa devo fare”. E la tristezza risponde: “lascia fare a me. Voglio portarti in un posto dove si è tristi, dove c’è tanto buio, tanta disperazione. Tu però vienimi dietro, accompagnami”. Se si vuole fare ancor meglio, provate a pensare la tristezza come una vera e propria immagine: ad esempio l’immagine di donna antica. Per una mia paziente la tristezza è il volto di una donna dell’800. Per un’altra la tristezza è il volto di una suora che le ricordava il collegio in cui andava da bambina. Io però le ho insegnato a dimenticare i ricordi. Dobbiamo vedere i nostri disturbi come lo spazio di un panorama, con sguardo panoramico.
L’occhio che si perde…
I nostri occhi non sono fatti solo per vedere solo gli oggetti intorno a noi. I nostri occhi sono fatti per produrre lo sguardo interiore, che non è lo sguardo del dettaglio, ma quello dell’infinito, dove una cosa chiama un’altra e poi un’altra, un’altra e un’altra ancora…
Una mia paziente puliva in modo ossessivo, tutti i giorni, il tavolo di casa sua, non le sembrava mai abbastanza pulito. Sapete come ha cominciato a star meglio? Quando ha visto in questo compito del pulire, un modo di tornare perfetta, senza macchie, senza sporco. Poi le ho fatto allargare lo sguardo. “Signora, guardi questa pulizia…”. Le ho fatto vedere che i boschi, soprattutto in autunno, si riempiono di foglie secche. E allora immaginava che al di là del suo bisogno di pulizia, di perfezione, dentro di lei potessero convivere due immagini: quella di una donna che pulisce e quella di una donna che sa stare con le cose sporche. Il modello di perfezione ci fa ammalare perché è figlio di uno sguardo che vede le cose solo e sempre apposto.
I disagi sono messaggeri
L’ansia, la tristezza, le ossessioni, possono dunque essere viste come le avvisaglie di un vento che vuole arrivare. Un altro mio paziente aveva l’abitudine di fare dei gesti, dei segni ogni volta che usciva di casa, sulla porta. Ripuliva continuamente la porta come se la porta fosse sporca. E davanti alla porta diceva una specie di preghiera, si augurava una buona giornata: lo ripeteva 15, 20, 30, 40 volte al giorno. Ma lo sguardo sulla porta è lo sguardo sul dettaglio. (il paziente dice, ndr) “Io penso di essere sbagliato perché ho l’ossessione di dire parole di benedizione sulla porta. Ho l’ossessione che passando da una porta all’altra cambierò il mondo, entrerò in un altro mondo. Mi sentirò incerto”. Allora io e lui abbiamo parlato della porta, non come dettaglio, non di quella che si apre con un serratura. Cos’è una porta? La porta separa uno spazio dall’altro. Quante volte abbiamo atteso dietro una porta? Quante volte ci siamo nascosti dietro una porta? Quando si dice “non aprire quella porta”…. Chissà quali energie ci sono dietro quella porta. Dietro la porta c’è sempre un essere sconosciuto: quindi il nostro amico ripeteva in modo ossessivo dei riti sulla porta, come facevano gli ebrei quando attaccavano le tavole della Torah sulla porta.
Il potere dei riti
Quando andavo in Africa ho visto dei pescatori che mettevano degli occhi sulle porte, per evitare che occhi invasivi entrassero dentro di loro. Allora gli ho detto: “scusi ma lei sta facendo un rito?”. Questo rito lo vuol portare in un altro tempo, in un altro mondo. Allora gli è venuto in mente che da bambino recitava sempre la domenica, quando tornava dalla messa, come se fosse un sacerdote, con la coppa, il vino, l’acqua. I genitori lo sgridavano, gli dicevano: “cosa fai, ti metti a fare il prete?”. Ecco dunque tornare l’uomo religioso che era dentro di lui; vedendolo come malato non era che un ripetitore di gesti inutili, ossessivi, per controllare l’ansia dell’entrata o dell’uscita dalla propria porta di casa.
Ma vedendolo in modo più profondo, con un occhio più panoramico, era lo sguardo di chi cerca il divino, il sacro, il senza tempo. Di chi vuole entrare in un altro mondo. Lui che nella vita faceva il matematico rigoroso, manager, in realtà dentro di lui c’era un uomo religioso.
Cercare l’infinito in ogni cosa
Una buona domanda da farsi è la seguente: ” quanti uomini misteriosi, quanti personaggi straordinari abitano dentro i nostri disturbi?”. Non chiamarla ansia quando arriva. Chiamala la voce di un personaggio che vuole trovare posto dentro di te, sedersi a casa tua. Un personaggio che viene portato da un vento e che è sempre misterioso. Dentro di noi abita qualcosa o qualcuno che vuol fare un’altra vita rispetto a quella che facciamo e ci porta a fare meglio il lavoro che non abbiamo iniziato a fare o che facevamo. O ci porta verso nuovi orizzonti. Insomma, lo sguardo panoramico, guardare ogni oggetto come fosse infinito, come se una cosa non fosse in questo tempo ma nel tempo di tutti i tempi, apre la partita della salute e del benessere. Passando il tempo a lamentarsi, a dire come siamo e come dobbiamo essere, ci ammaliamo. Cercando l’infinito nelle cose, noi incominciamo a vivere una dimensione più autentica, più profonda, più naturale, nella quale siamo davvero immagini uniche dell’universo. L’immagine, bisogna saperlo, non appartiene al finito: non possiamo dire semplicemente “femminile”, dovremmo dire “femminile, acqua, maree, luna”. Siamo immagini uniche dal sapore cosmico. E disturbi vengono per ricordarci questo sapore di identità più profonde che ci abitano e che ancora non riusciamo a vedere…
Raffaele Morelli
fonte http://www.crescitainteriore.com/