di Cecilia Martino
La Notte del 31 ottobre ci ricorda che può bastare un’“altra vista”, non un’altra vita, per armonizzarci con tutto ciò che c’è.
La parola Samhain è composta da Sam + fuin = fine dell’estate, utilizzato anche nell’accezione di “riunione” e, per estensione aggiungerei di ri-unificazione, ricongiunzione, ri-armonizzazione, integrazione.
Di cosa? Cosa c’è da riunificare, re-ligere, rendere religioso?
Forse quel “mondo delle cose nascoste”, che poi tanto nascoste non sono, e forse mai come nel periodo dell’anno che volge al raccoglimento possono essere viste, manifeste a uno sguardo più attento, perché la natura stessa si approssima a un ritiro, ripiegandosi in se stessa non senza esplosioni di grazia così care al periodo autunnale.
Boschi, campagne e luoghi selvaggi parlano sempre molto chiaro.
Sono le cose del mondo “invisibile”, non visibile ma sensibile e sentito, la dimensione spirituale che tutto permea, “monda e umanizza” – parafrasando una suggestione del poeta Emerson.
Eccolo, allora il “mondo degli spiriti” quale aggregazione di qualità energetiche più che di entità da antropomorfizzare, di cui fanno parte anche avi e antenati, componenti amate di questa ricorrenza che a più voci si intona nel culto della celebrazione delle anime trapassate.
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Ma le anime poi trapassano per davvero?
Se l’anima è immortale, queste notti di ritualità che precedono e poi accompagnano tutto Samhain non ci richiamano forse all’entrata in profondità in ciò che di più impermanente riceviamo nell’avventura terrena? I corpi, la fisicità, una forma di energia più densa, possono dialogare con l’informe e l’extrasensoriale in un paradosso di dialogo alchemico-poetico che per alcuni ha ancora il suono allettante di magia, per altri è l’unica realtà possibile; niente di straordinario se non nell’intesa da rinnovarsi ogni giorno con quanto ci è più estraneo, inconoscibile, misterioso.
Celebriamo dunque il “mondo delle cose nascoste” come invito a mostrarci e insieme occultarci, onorare il nostro lato terreno, multiforme e cangiante, intimamente interconnesso agli altri esseri viventi, insieme al nostro destino di verticalità in alto nei regni celesti, l’ascesi spirituale che contempla l’assoluto imperituro, impronunciabile, ineffabile, sfondo di coscienza e spirito del mondo.
Il simbolo della croce evoca la duplice dimensione – orizzontale e verticale- del nostro cammino, innalzamento verso il cielo e ritorno verso la terra, ascesa dell’energia verso il vertice del corpo e discesa verso la sua base.”Ciò presuppone che il celeste non sia soltanto sopra le nostre teste ma anche fra noi” ( Cit. Luce Irigary, La via dell’amore)
Potremmo utilizzare le particolari atmosfere della notte di Samhain per accorgerci e accoglierci nella multidimensionalità che ci è propria in quanto esseri umani viventi in coscienza, presenti e divinamente ispirati. L’interregno del mondo dei morti è il nostro pane quotidiano, la complicità universale del rigeneramento e dell’ ascensione . L’attitudine sacra di pregare, cantare, danzare, meditare la presenza di ogni momento pieno che il vuoto sostiene e nutre nel fermento che rende un terreno pronto per raccolti sempre nuovi
Chi è trapassato in altra forma vive in altra forma, il mondo degli spiriti non alberga in luoghi distanti e oscuri, atroci e infernali, è il focolare del nostro cuore pulsante finché vitale a dare calore a tutto ciò che esiste in una trama dialogica ben più vasta di quella che la narrazione ricorrente, condizionata e unidirezionale della mente assertivamente logorroica vuole tramandare.
Proviamo, allora, nella “notte più magica dell’anno”, a fluidificare le storie che ci ancorano a punti fermi della nostra esistenza. È la notte in cui si assottigliano i veli tra le dimensioni, potremmo sorprenderci più sensibili, vulnerabili… Sarebbe una benedizione, purché rimaniamo disponibili.
Per armonizzarci a tutto ciò che c’è ci è richiesta “un’altra vista”, non un’altra vita!
Vedere che, in fondo, non c’è separazione alcuna tra luce e ombra… Siete consapevoli del fatto che nelle nostre teste e nelle nostre colonne vertebrali ci sono molteplici connessioni tra materia grigia, che usa la luce, e quella bianca che usa le tenebre, l’energia oscura?
Abitiamo un universo poetico non perché ad ogni stella cadente possiamo esprimere un desiderio, ma perché ogni desiderio che sia moto del cuore allineato a volontà superiore crea una stella, un potenziale di azione, di ritmo, di spaziosità, di armonia, di espansione e poi esplosione sì, il ritiro, il rientro a Sé, al nucleo divino dell’essere.
Siamo inseparabili dal mosaico spirituale della Natura, l’ascolto e il silenzio sono gli strumenti più potenti e puri a nostra disposizione, ganci misericordiosi con cui è possibile riconsegnare i fardelli delle nostre storie personali a una prospettiva più ampia che se ne prenderà cura.
Esprimerci poeticamente è tornare ad abitare la lingua vibrante delle Origini, evocativa e allusiva, inclusiva e accogliente, disponibile e sorprendente, celebrativa e vocazionale.
Perché nelle formule magiche e nei rituali si pronunciano parole?
Cosa dona potere trasformativo a una precisa successione di versi?
Nella mitologia dell’India c’è una dea tutta femminile che è la Parola, raffigurata in una divinità fluviale, la Sarasvati “colei che è costituita di flutti” … “I flutti portatori di vita diventano portatori di parola: ci si appella alla generosa abbondanza di Sarasvati quando si prova lo sgomento di non sapere più cosa dire o cosa pensare”. (cit. Charles Malamoud, Femminilità della Parola)
Da dove proviene la generosa abbondanza di Sarasvati?
Non certo nel riconsegnarci alle strettoie di frasi fatte, preconfezionate e vuote di … Presenza. Non sono ingranaggi di un linguaggio sterile, ma fiumi, movenze, ritmiche, respiri di una lingua nuova che si anima in relazione al presente e diviene suono perturbante, pulsazione risvegliante, quasi un silenzio che vibra.
Non a caso la Dea è raffigurata con lo strumento musicale sitar. Come Orfeo e la sua lira, il cantore delle parole che vibrano, parole che suonano, parole che nutrono, parole intrise di poesia, simbolo dei misteri orfici, iniziatici, con un’alleanza stretta con gli Dei degli Inferi.
“Ma egli, evocatore, li desti
e nello sguardo mite li esorti
a mescolarsi a ogni cosa veduta”
Comunicare con chi non è più visibile agli occhi è un “allenamento poetico” a vedere con la sensibilità pura che ci avvolge nella totalità, una sensibilità tattile, energetica, vibrazionale.
Risuonare con qualcosa è entrare in contatto intimo.
Comunicare “con i morti” non assume forse tutto un altro spessore se quello che ci lega è un atto lirico di intonazione e risonanza?
Avere fede nell’invisibile è, in sostanza, amore. Amore incarnato e disincarnato.
In nome di questo amore che “move il Sole e l’altre stelle”, sacrifichiamo la staticità e le fissazioni per renderci liberi di fluire. Bruciamole insieme alla lanterna di Jack O Lantern (o di Diogene!) mettiamoci nuovamente il sale in zucca, per dare sapore alla vera vita! Per intonare il nostro canto libero.
A proposito di canto libero – e che libera – consiglio di vedere il film di animazione Coco, perfetto tra l’altro per questo periodo!
Possiamo accendere un bel fuoco durante la notte di Samhain e bruciare i lacci della memoria che ci impediscono di fluire inarrestabili con la vita che si svolge sempre e unicamente al presente.
Presentiamoci di fronte ai nostri defunti, memorie dolorose, ricordi familiari o altro, spiriti infestanti, demoni e scheletri nell’armadio…
Presentiamoci a queste forze transpersonali riconoscendone la qualità, in amorevole distacco, in consapevole unione.
Distacco e unione, non c’è contraddizione, è la bellezza salvifica del paradosso: la legge poetica del nostro compimento terreno.
Utilizziamo il più possibile verbi al presente, ascoltiamoci al presente, rammemoriamo al presente.
Presentiamoci alla vita e alla morte nella versione più autentica di noi.
Perché alla fine cosa rimane della vita è la lingua della poesia.
Egli è terreno? Egli è terreno? No, dai reami
diversi prese la vasta natura.
Più esperto piega del salice i rami
che le radici del salice cura.
Quando fa buio sul desco non resti
pane né latte: attirano i morti.
Ma egli, evocatore, li desti
e nello sguardo mite li esorti
a mescolarsi a ogni cosa veduta;
a lui l’incanto di erica e ruta
sia vero come il rapporto più chiaro.
Niente l’immagine salda cancella;
sia della casa, sia della bara,
celebri l’urna, il fermaglio o l’anello.
(I, 6 Sonetti a Orfeo di Rainer Maria Rilke)
Franco Battiato – Lo stato intermedio quella “gaffe” chiamata morte