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Tu non sei normale
“Essere normali” vuol dire essere adattati a un insieme di regole, abitudini o convenzioni. Se questo insieme non è definito o almeno sottointeso, “normale” non vuol dire nulla.
Non esiste una normalità assoluta: per gli argentini è normale uscire alle quattro di notte, per gli inglesi è normale mettersi in coda alla fermata dell’autobus, per gli indiani è normale non rispettare le precedenze guidando, per gli italiani è normale dividere la prima portata dalla seconda.
Ogni persona potrà valutare sé stessa o le proprie scelte solo misurandosi rispetto ad un riferimento; cambiando questo, la stessa persona potrebbe essere considerata “normale” o “strana” o “del tutto anormale” allo stesso tempo.
Allora perché diamo tanto peso alla normalità? Perché cerchiamo di avere una vita normale, fare scelte normali, avere un lavoro normale e vestiti normali? Per il senso di appartenenza: in quanto persone normali, siamo riconosciuti come membri del gruppo che usa lo stesso riferimento di normalità.
Altri, al contrario, cercano di comportarsi in maniera non normale, e lo fanno per distinguersi in qualche misura rispetto al gruppo di cui fanno comunque parte; per limitare, attraverso un moderato individualismo, l’effetto uniformante della normalità. Neanche un anticonformista può però permettersi di violare troppe regole, l’eccesso porterebbe infatti al suo graduale isolamento fino al totale allontanamento.
La normalità dei membri è importante anche per il gruppo stesso, perché ne determina la sua stabilità. Più normali e omogenei sono i componenti di un gruppo, più questo sarà stabile, e la stabilità, come ben sapete, è rassicurante per tutti.
Perché questo discorso?
Perché molti tra i frequentatori di questo blog, me compreso, hanno litigato almeno una volta con i criteri della normalità. Almeno una volta si sono sentiti dire “tu non sei normale”.
A questo abbiamo spesso associato un senso di colpa o di inadeguatezza: “cos’ho che non va? Perché non sono come tutti gli altri?”
Siamo stati educati a pensare che la normalità sia un bene assoluto, al punto che di fronte a un nostro pensiero “non normale”, pensiamo di aver sbagliato in qualcosa, addirittura di essere noi stessi sbagliati.
Invece nutrire dubbi, fare domande scomode e concepire pensieri anormali non sono sintomi di inadeguatezza, ma di conflitto -conflitto con il gruppo di cui, magari senza volerlo o saperlo, abbiamo accettato le regole di normalità- e poiché, come abbiamo visto, non esiste una normalità assoluta, di fronte a un malessere interiore non dovremmo chiederci solamente se c’è qualcosa di sbagliato in noi, ma se per caso non ci sia qualcosa di sbagliato nella normalità che abbiamo accettato come riferimento.
In altre parole, siamo noi ad andare contromano, o sono tutti gli altri? La risposta non è così scontata.
Invece critichiamo la normalità solo raramente. “Tutti gli altri sono o fanno così” ci diciamo, come se questo fosse un motivo sempre valido per fare altrettanto, dimenticando però che la storia non è mai stata fatta da chi ha seguito la folla lungo le strade normali. I cambiamenti sono sempre conseguenza di un ideale non comune, di un pensiero innovativo, di una persona folle che un giorno ha pensato di cambiare il mondo e -guarda un po’- ci è pure riuscito.
Non c’è cambiamento senza ribellione allo status quo, non c’è progresso senza una critica alla normalità.
Io la mia posizione l’ho trovata tanto tempo fa.
Rispetto a una società che reputo profondamente ingiusta, essere anormale è un dovere morale. Preferisco essere strano tra i normali, o normale tra gli strani, che crogiolarmi nel senso di appartenenza ad un mondo che ritengo sbagliato.
E quando mi diranno ancora: “tu non sei normale”, io risponderò:
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